Human functions and Occupational Therapy: the therapeutic power of language

https://irm.ahs.uic.edu/about-irm/

[…] L’uso terapeutico del sé delinea un processo di ragionamento interpersonale che i terapisti possono applicare quando interagiscono con i loro clienti. [UIC Università dell’Illinois Chicago https://moho-irm.uic.edu/resources/aboutIRM.aspx]

Nella pratica della Terapia Occupazionale esiste un modello che, prima ancora di prendersi cura dell’occupazione, si prende cura di costruire le fondamenta per il successo terapeutico. Lo fa costruendo una comunicazione maieutica facilitante, quell’ intesa mentale solida e germinativa di compliance. Questa comunicazione trova il suo punto forte, nella consapevolezza di sè del terapista, prima ancora che del paziente.

Da ciò scaturirà un ingaggio del paziente in tutte le sfaccettature del suo essere Persona e il successo terapeutico resterà per sempre nella sua mappa dei ricordi vincenti.

Un caso di applicazione.

Paziente ricoverata per riabilitazione post impianto di protesi d’anca.

Signora X, anni 50, donna in carriera, separata, madre di una figlia laureata in attesa di assunzione definitiva, genitori anziani da accudire. Dopo anni di gestione delle criticità con coerente abilità, si trovava ad un impasse nell’organizzare la sua giornata, poco motivata ad affrontare gli impegni tra lavoro e famiglia, creativamente passiva, performance decisamente inefficaci per il suo standard.

Paziente: “Io proprio non ce la faccio…ci sono giorni che…sai quando la nostalgia  ma non proprio, si confonde con l’impazienza che non è proprio impazienza, è più insofferenza… e la noia poi…ti ottunde la fantasia…e alla fine hai consumato un giorno senza produrre nulla…un giorno di vita sprecato…questo stato mi angoscia e basta, non trovo pace ne mentalmente ne fisicamente…non so come fare…è molto faticoso superare queste giornate…che poi se ci penso, tutto sommato non dovrei stare così…ma proprio non ci riesco”

Dopo attenta osservazione e studio del linguaggio verbale e non verbale, nonchè del sistema rappresentazionale primario e della storia occupazionale della Paziente, la Terapista ha ingaggiato un aproccio mirato a spostare l’attenzione da uno schema non costruttivo ad uno costruttivo: “Ha idea di quanto è importante l’etimologia delle parole, per una visione facilitata dei suoi problemi? Sa che le parole hanno un grande potere? Dipende molto da come le usiamo, ma anche molto da quanto conosciamo il loro significato intrinseco…niente è solo dannoso, dipende da come ascoltiamo noi stessi e da quello che ci raccontiamo… la sua storia la può guardare da un altro punto di osservazione…può trasformare i termini negativi in positivi…i termini che utilizziamo, portano spesso a trovare le soluzioni ai nostri tormenti…per esempio, l’etimologia della parola “nostalgia”…la prima parola che lei ha mensionato, ci conduce a una soluzione…deriva dall’unione di due parole di origine greca: nostos, “ritorno a casa” e algos “dolore”, che insieme diventano “il dolore del ritorno”. Ora, se iniziamo a programmare un ritorno a casa propulsivo, a quelle che sono le attività di cui sente la mancanza, può ben comprendere che la parola cambia di significato e anche la percezione del suo stato d’animo ne beneficia”

Di pari passo con la riabilitazione motoria, la Terapista Occupazionale ha lavorato con la paziente alla traduzione positva del linguaggio, la quale ha potuto osservarlo da un altro punto di vista. Il risultato è stato un cambio di prospettiva, il miglioramento della motivazione, lo stato mentale proiettato a creare un futuro ricco di nuovi stimoli e una visone di sé potenziata. La Paziente ha trovato un modo costruttivo di vivere i suoi stati apparentemente passivi, in potenziali da esprimere.

La fase di natura “depressiva” che insorge in ogni essere umano, ogni tanto, che sia per pochi minuti o giorni, ha un potenziale creativo, basta solo imparare come calibrare la lente che proietta il film, per mettere a fuoco da più lontano se siamo troppo vicini allo schermo e vedere nuove soluzioni.

Dai grandi filosofi ai geni, la maggior parte di loro ha generato opere indelebili nel tempo, in uno stato definito melancolia: dal greco μελαγχολία (melancolia) composto da μέλας = nero e χολή = bile; quello stato d’animo che deriva da un misto di tristezza, inquietudine, malumore, tedio, uggia…ombra. Secondo la fisiologia ippocratica, è uno dei quattro umori fondamentali, descritto come un fluido freddo e secco, generato dall’archetipo della terra.

In questo stato si è naturalmente predisposti a riflettere, dal latino piegare all’indietro, a interiorizzare e osservare.

Aristotele sostiene che «tutti gli uomini eccezionali, nell’attività filosofica o politica, artistica o letteraria, hanno un temperamento melanconico o atrabiliare, alcuni a tal punto da essere persino affetti dagli stati patologici che ne derivano», possiamo quindi estrarre un lato costruttivo da uno stato apparentemente statico e buio, vedendolo come uno stato di decomposizione del vecchio, che diviene concime del nuovo, quindi, un aspetto positivo e generativo.