
Nel mio lavoro di operatrice sanitaria, sempre al fianco di chi soffre, è di primaria importanza porre attenzione alla qualità della comunicazione, che sia essa in forma di verbo, di sguardo, di gesto, di significativo silenzio.
Circa tre anni fa, un amico, mi consigliò di leggere un libro, affermando che sarebbe stato molto utile per il mio lavoro, comprai il libro e lo trovai effettivamente molto interessante. Il libro dal titolo, “Spiritualità cristiana e coaching. La relazione facilitante di Gesù”, comparava appunto l’agire di Gesù, con l’agire del Coach, devo dire che ne rimasi sorpresa, perché più volte avevo riflettuto su un concetto simile, ma subito lo avevo messo da parte, perché temevo che condividerlo sarebbe apparso blasfemo.
Fu così che scoprii nel libro, grandi affinità tra i due carismi, se così possiamo chiamarli, grazie alle parole del Padre benedettino Natale Brescianini, nonché coach.
L’agire di Gesù ed alcuni tratti caratteristici del coaching, hanno delle affinità sorprendenti, entrambi sono al servizio dell’essere umano, affinché ogni uomo possa dare il meglio di sé, con le energie spirituali e materiali, con le proprie potenzialità per realizzare concretamente ciò che ha dentro di sé.
Entrambi partono da una visione positiva dell’essere umano e di ciò che ognuno può fare; così come la vita spirituale si realizza e prende spunto da azioni concrete nella vita quotidiana, così il coaching ha il punto di forza nell’azione, che prevede il darsi una regola, una disciplina mentale e spirituale, per centrare un obiettivo.
Ecco che il coaching diviene uno strumento potente ed efficace per rendere ogni persona consapevole della propria ricchezza spirituale, autonomia nel suo agire, responsabile difronte alle scelte. Per me che sono Terapista Occupazionale, la comunicazione efficace è il punto cardine intorno al quale si costruisce l’intera terapia e leggere questa trasposizione dell’opera di Gesù come strumento di motivazione, è stato una sorprendente e produttiva scoperta, soprattutto con i pazienti più credenti.
Nonostante il coaching come disciplina e metodo di sviluppo personale, comincia a prendere forma negli Stati Uniti verso la metà degli anni 70, grazie all’intuizione di un maestro di tennis americano Tim Gallwey, spostando la lente indietro nel tempo, prima ancora di Gesù, troviamo ampie similitudini nella maieutica socratica, azzardando definire Socrate come il primo coach della storia.
Il celebre filosofo ateniese, di cui tramandiamo ancora oggi i suoi moti “conosci te stesso e abbi cura di te stesso”, basò il suo pensiero sulla libertà di ogni essere umano di ricercare la propria virtù e di realizzarla nel rapporto con gli altri, all’interno di una comunità.
Egli non diffondeva alcuna specifica dottrina ma esercitava con i suoi interlocutori, l’arte della maieutica; in greco l’arte della levatrice paragonando la sua attività al lavoro dell’ostetrica.
Questa arte maieutica non è in realtà che l’arte della ricerca associata all’uomo, il quale non può aggiungere chiarezza con sé stesso da solo, nel limitato recinto della sua individualità, ma tramite un dialogare continuo con gli altri come con se stesso e il coaching infatti è anzitutto una relazione.
Socrate dichiarava di non essere detentore di alcuna Sapienza, ricorderemo il famoso motto “io so di non sapere” in un dialogo Platone fa dire a un suo personaggio Teeteto: […] interrogo gli altri ma poi io stesso non manifesto nulla su nessun argomento (…) non sono affatto sapiente in qualche cosa, nè ho alcuna sapiente scoperta che sia come un figlio generato dalla mia anima. Ma di quelli che mi frequentano (…) fanno progressi così straordinari che se ne rendono conto essi stessi ed anche gli altri. E questo è chiaro: da me non hanno mai imparato nulla, ma sono loro che, da sé stessi, scoprono e generano molte belle cose.[…].
L’io so di non sapere socratico è probabilmente la prima meta-competenza di un coach, che non dà ma fa produrre agli altri.
Quando il coach porta alla coscienza la sua ignoranza si apre a nuove consapevolezze, permette al coachee di trovare in sè il sapere autentico. È allora, sull’impronta socratica, che egli ricava da una meravigliosa profondità, ciò che egli già sapeva ma senza sapere di saperlo.
Ognuno deve trovare da sè la conoscenza, dono che non si può vendere come merce ma, si deve facilitare risvegliando la sete di sapere.
Come Socrate, il coach aiuta le persone a portare alla luce gli elementi di verità presenti in esse e lo fà utilizzando modalità comunicative stimolanti, talvolta gentilmente provocatorie, con ironia, con leggerezza, con seria professionalità, senza mai sottomettere l’originalità del coachee.
La domanda è la chiave di volta del buon lavoro del coach, chiedere all’interlocutore la spiegazione dei sui concetti espressi e guidarne la coerenza nelle argomentazioni, rende consapevole la persona di eventuali false credenze e schemi sterili, aiutandola a far emergere le sue più autentiche verità.
Sulla base di quanto sopra, l’emozione più bella nel mio lavoro di coach, è creata dal non sapere quale direzione prenderà la vita della persona, dopo aver partorito e ricostruito la propria verità.
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