
Ogni terapeuta, incontra il paziente “insalvabile”, intendo quel paziente che “usa” la malattia, le dà forza, la esibisce come trofeo della sua guerra, come scudo, come sprone, come difesa, come espediente e così via.
Questo paziente, ha sì, voglia di disfarsi della malattia, ma non di quello che rappresenta per lui, o meglio, non ce la fa ad abbandonarne il potere affettivo/esistenziale che essa gli ha improvvisamente donato.
“Da quando sono malata, ho ricevuto tanto, tanto affetto, pensi dottoressa, persino da quelle amiche che mi giravano la faccia quando le incontravo, pensi lei! Ora che sono malata, tutti si occupano di me, pensi dottoressa, che mi portano anche la cena a casa, che persone, ah, si sono proprio fortunata, nella sfortuna intendo.”
La ascolto e il dialogo prosegue nei giorni. Lei si racconta, prima della malattia, “Per molti ero come un fantasma” e poi, vedova di un marito sempre assente, una vita semplice, quasi nessun contatto sociale, tutta la vita dedicata ai figli cresciuti con tanti sacrifici, “…ora sono lontani, e non posso vedere i nipotini. Ma che vuole, non possono mica occuparsi di me, con tutti i problemi che hanno“.
Passano i giorni ma, le cure, non conducono alle previsioni di recupero; la Signora non migliora, nonostante a livello clinico, il problema acuto sembri superato, i sintomi persistono. Insonnia, fatigue, ipotensione, stato depressivo.
Facciamo il punto, una valutazione intermedia per il progetto riabilitativo: la Signora non sente nessun miglioramento, non vuole sentirne di valutare i miglioramenti, perchè tanto lei, si sente come prima e basta, e conclude il colloquio con “…tanto, nessuno può salvarmi.”.
Valuto il programma da adottare e dopo conferma giunta da consulto con psicologa, programmo estenzione della riabilitazione al campo sociale, si passa quindi, dal corpo alla mente.
La Signora è decisa a non uscire dalla sua stanza, “No oggi no, se poi viene qualcuno a trovarmi, non mi trova” allora rimaniamo in camera e parliamo di cosa le piacerebbe fare una volta guarita. “Ma tanto dottoressa, lo so, io non guarirò, questa malattia è grave, dovrò aspettare la morte, ma ho tanti amici che mi vengono a trovare qui, non si preoccupi non sono sola, non ho voglia di uscire a distrarmi, sto bene qui”.
Il programma prosegue, si interagisce nel corridoio con altre “nonne”, si ascoltano le altre storie di vita.
Nei giorni successivi, si descrivono immagini di belle giornate, si ipotizzano viaggi per andare ad abbracciare i nipoti, si guardano le foto di quando erano appena nati e si sogna come saranno adesso; insieme ai ricordi, si creano immagini di futuro. Si stila una strategia con i caregiver (amici e un nipote quasi maggiorenne), per aiutarla a vedere una luce.
La settimana passa e le strategie vagliate, portano finalmente ad una svolta importante, la Signora acconsente ad uscire dalla stanza, per incontrare in giardino, gli amici che vengono in visita. Agli amici è stato espressamente chiesto di invitarla a scendere perchè l’aria del reparto, per loro, è viziata e poco sana.
Invitato, giunge in visita il nipote più grande, che non era al corrente della situazione, e la sorpresa commuove alle lacrime la nostra Signora.
Così trascorrono giorni importanti, decisivi, agli amici e al nipote, viene illustrato un programma strategico, proposte di azioni future, progetti, obiettivi comuni, gite. L’umore della Signora migliora e con esso anche tutta la sintomatologia.
Si va avanti così per alcuni giorni, finché una mattina “Dottoressa, no domani non ci vediamo, ho chiesto al dottore di uscire, basta voglio tornare a casa, ho pregato tanto e finalmente Dio mi ha ascoltata, sono guarita e dopodomani torno a casa! E poi devo fare la valigia, parto sa dottoressa? Vado da mio figlio a vedere la nuova casa!”
Forse la Signora ha ragione, ma quale è stato il Dio che l’ha ascoltata, quello in cielo, quello nella sua mente, quello nel suo cuore, la dottoressa che le ha fatto fare allenamenti mentali (Mental Training)? Magari è tutto insieme, credo potenti, atteggiamenti costruttivi, visualizzazioni rassicuranti, immagini potenti e creative, e il risultato è ottimo.
Condurre ad occupazioni più produttive, chi della propria sofferenza, ha fatto una bandiera per la Libertà, è una stimolante ed emozionante impresa.
La persona si avvicina e ti chiede, poi si racconta, e mentre si racconta, si stima e si sente di valere molto più, di quanto gli altri pensano.
Ma ecco il momento in cui ti allontana, quando ha nutrito il vuoto, ma non è ancora pronta, per lasciare andare l’abitudine.
È questo il momento più delicato, il momento in cui ti lasci allontanare ma non vai via; rimani al confine di quello spazio, lì dove la Persona vuole che tu stia.
Dapprima accogli e consoli la sua sofferenza, poi inizi a costruire un ponte verso altre occupazioni, un ponte oltre lo star male; inizi a costruire una nuova realtà, una realtà più ecologica per la guarigione e gliela fai vedere. La costruisci con lei, la vivifichi, la colori di quante più sfumature reali si può, la fai sognare ad occhi aperti, le fai sentire i profumi di quella realtà, la guidi, affinché nasca una nuova forma pensiero e utilizzi le sue risorse mentali per fargliela realizzare.
Poi arriva il momento più bello, quello in cui ti viene a cercare e ti invita a rientrare. È nata la fiducia, da qui in poi, ogni terapia è vincente.
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